Contro la cultura dell’evento: i beni culturali e la loro “eventificazione”

Nell'era contemporanea, la cultura sembra esistere solo nel momento in cui è resa un evento. Musei che si animano durante le "notti bianche", borghi che emergono dall'anonimato grazie a festival tematici, biblioteche e archivi trasformati in scenografie per banchetti, feste o matrimoni, sono solo alcuni dei casi recenti nel nostro Paese e all’estero.

Questa tendenza solleva una domanda cruciale: il patrimonio culturale ha bisogno di essere spettacolarizzato per essere valorizzato? E, soprattutto, che effetto ha questa continua rincorsa all’evento sulla percezione stessa della cultura? La paura che sorge in me, come fondamento della domanda precedente, è che il pretesto dell’evento sia sintomo di un disinteresse latente. L’idea che la cultura necessiti di eventi straordinari per attirare l’attenzione potrebbe rivelare un problema più profondo: un disinteresse diffuso verso il patrimonio culturale nel suo stato quotidiano.

La tendenza a questo fenomeno che non poco polemicamente ho chiamato “eventificazione”, potrebbe essere valutata come positiva, come una forza con effetto energizzante nei confronti dei beni e dei patrimoni culturali. Tuttavia, quella che viene venduta come una valorizzazione di questi è soltanto una pubblicità squilibrata e distorcente. Questo perché al di fuori delle occasioni promozionali create, la quasi totalità di questi luoghi o beni, rimane nell’ombra, lasciando intendere che, senza una narrazione spettacolare, il patrimonio culturale non sia sufficiente ad essere rilevante.

Questo fenomeno solleva non solo gli interrogativi sulla nostra capacità di apprezzare il patrimonio culturale senza l’impulso dell’evento eccezionale – linea critica che recentemente, almeno in Italia, è stata sollevata – ma un profondo problema sistemico nell’ideazione, curatela e conduzione delle due attività cruciali della gestione dei patrimoni culturali: tutela e valorizzazione.

Ho parlato prima di squilibrio e distorsione perché ritengo che questi due nefasti effetti, i più pericolosi per la gestione dei patrimoni culturali, siano gli unici due prodotti di questa tendenza pubblicitaria. La trasformazione temporanea di spazi culturali per eventi può portare infatti ad una perdita della loro funzione originaria. Biblioteche che ospitano aperitivi o rinfreschi, musei che diventano scenografie per sfilate di moda o teatri che si reinventano come discoteche per una notte possono attrarre un pubblico diverso, ma rischiano di snaturare l’essenza di questi luoghi. Il rischio è che l’evento, pur fungendo da catalizzatore d’attenzione, svuoti i contenitori culturali del loro valore originario, trasformandoli in meri strumenti di promozione. Il problema, qui, non risiede solamente in questa sorta di ibridazione o rifunzionalizzazione degli spazi e dei luoghi della cultura, che possono benissimo abbracciare un ventaglio di funzioni o scopi, ma che sia la cultura stessa a diventare un prodotto. Un prodotto, tra l’altro da consumare rapidamente, piuttosto che un patrimonio da comprendere e vivere, risultato squisito dei modelli economico-politici, sociali e culturali neoliberali e capitalistici.

Esempi di questo fenomeno si possono ritrovare in una quantità di luoghi, spazi, città o anche regioni, dove ogni proposta e offerta deve essere piegata al risultare più appetibile e apprezzabile – quindi vendibile – per il turismo di massa.

Ma qual è il confine tra la valorizzazione e la svendita? Se i patrimoni culturali e i loro beni, testimonianze materiali e immateriali di una memoria collettiva e culturale, si piegano alle esigenze e alle volontà della vendita e del profitto, significa che abbiamo accettato di vendere e di estrarre un plusvalore monetario anche dalla nostra stessa memoria. Così, considerando l’evento come unica esperienza possibile, si crea un modello di consumo culturale basato su di una percezione utilitaristica del patrimonio. Questa dinamica può portare a una polarizzazione pericolosa: da un lato l’iper-spettacolarizzazione, dall’altro il progressivo abbandono degli spazi che non riescono a rientrare nei circuiti della cultura-evento.

In un panorama del genere, ciò che non è evento è invisibile. Un patrimonio senza eventi diventa un patrimonio dimenticato, senza vita. Il pubblico stesso si abitua a vivere la cultura solo in circostanze straordinarie, perdendo il senso di una fruizione continuativa e spontanea, che sarebbe quella libera e indipendente.

 

A cura di: Emilio Zanzi

 

Fonte immagine: foto di Rocco Stoppoloni da Pixabay (link: https://pixabay.com/it/photos/tempio-montagne-paesaggio-viaggio-5142557/ )

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